Oh il suo rosso tenace!
Sui rami onorò il freddo,
tutto magnificò col candore.
A primavera il suo scheletro
unico fra le rose del giardino.
Anarchicamente interrogo la realtà escogitando come “rivoluzionarla”. Ma la mia “rivoluzione” non è concepita né come “evento” né come strumento di sostituzione del detentore del potere, del principio di autorità. La rivoluzione come evento, anzi, per me è contraria all’essenza stessa dell’anarchia, la quale, lontana da ogni forma di disordine sociale, vuole invece instaurare un ordine fondato sulle virtù degli uomini e non sui vizi, su norme etiche fortemente ed eroicamente autoimposte, secondo un’idea di autogoverno intimo, di assunzione di responsabilità radicale, in piena libertà. Rivoluzione come evento significa reiterare la logica dell’autorità imposta e il principio del dominio di un individuo sull’altro, investendo sempre nuovi protagonisti (lo stato, la chiesa, gruppi di potere, uomini, donne, società) del diritto di comandare e dominare attraverso l’esercizio della forza, della violenza, della coercizione. Per ciò la rifuggo. La rivoluzione che ho in mente invece ha a che fare con un processo storico meditato, come “mutazione culturale dell’immaginario sociale collettivo”.
Come disse Gandhi: “anch’io sono un anarchico, ma di altra specie”.
Cosa devono essere i nuovi anarchici secondo me?:
Irriducibili partigiani della libertà e della non violenza.
“Se sono modestamente un anarchico è perché l’anarchia prima ancora che un’appartenenza, un catechismo, un decalogo, un dogma, è un modo di essere, uno stato dell’anima, una categoria dello spirito”.
L’uomo non vive di solo pane, ma nemmeno sopravvive con la sola anima, e allora batte il ferro caldo delle idee e col lavoro modella le sue forme. Chiodo dopo chiodo, ferita dopo ferita, costruisce la sua cattedrale, il suo laboratorio, la sua officina; la sua manuale, incompresa, trascurata, meravigliosa Opera.
Perchè al di là di dio c’è l’uomo, al di là di dio l’uomo è presente. La ricerca è la ricerca dell’uomo…
“Cosa farò io? Me ne starò in disparte, perchè un artista che canti o scriva deve mantenere un equilibrio di giudizio, guardando la realtà dalla cima di una montagna, scegliendosi così una solitudine volontaria responsabile, per quanto è possibile, soltanto di sè stessi, senza gregge, senza legge”. Fabrizio De Andrè